TESTIMONIANZA di Luigi Negro (Dante)

Nome di battaglia Catanza, perché calabrese della provincia di Catanzaro. Una storia come tante altre del nostro sud. Di solito famiglie numerose, non così la sua: una sola sorella.
Il padre, emigrato in Argentina, non trovò la fortuna che era andato a cercare.
Lavorò come un mulo, tale e quale a casa, con umiliazioni e sacrifici da emigrato povero.
Non robustissimo, lavorò nelle Pampas, ma era un pastore di pecore, non un Gaucio.
Non tornò più e nemmeno poté chiamare a sè la sua famiglia. Scomparve in qualche regione dell’interno: una delle migliaia di tragedie sopportate dal nostro popolo.
Il figlio nemmeno lo ricordava, troppo piccolo, ma era una ferita al cuore che non si era mai rimarginata.
Come tutti i ragazzini come lui, poca scuola e a lavorare prestissimo.
Diceva di aver zappato tanta terra da riempire tutta la Val Luserna.
La madre in casa era in condizione di inferiorità, in una società che non permetteva alle donne di avere una loro attività e indipendenza, praticamente recluse; lavoro fino allo sfinimento e magari considerata un peso da mantenere e senza voce per sé e i propri bimbi.
Suo padre aveva una dozzina di fratelli e sorelle e si ritrovò servo di zii, cugini, cognati.
Soldi niente, mangiare poco e lavoro tanto. Fortuna? Il clima caldo, che rimpiangeva sempre.
Un po’ di latte, piante di olivo e frutta gli permettevano di andare a dormire quasi sempre non affamato.
Sentiva parlare del favoloso Nord, dove con il lavoro c’era possibilità di fare una vita decente.
Si ritrovò a Torino con il debito del biglietto del treno e poche lire prestategli sulla parola. Disastroso.
Si adattò a fare di tutto: lavori umili, pesanti e anche pericolosi e non tutti i giorni riusciva a sfamarsi.
Impossibile ottenere la residenza, perché tra le ideologie del regime c’era quella dell’Italia rurale, potenza rurale, e cambiare residenza era quindi difficilissimo, anche a causa della guerra e della necessità di mano d’opera.
Chissà come ragionava la burocrazia fascista.
Non peggio di quella dei giorni nostri perché è ancora quella ereditata da allora.
Quindi lavori precari, in nero e sottopagati.
Insomma se non patì la fame in Calabria, in Piemonte sì! Non aveva nemmeno la tessera del razionamento e piante di frutta e olivi: ‘niba’.
In compenso tanto freddo… l’umiliazione e l’emarginazione dell’immigrato meridionale e povero.
Era la cosa per lui più amara. Arrivò in formazione che aveva 18 anni.
Nessuna forma di razzismo, nord-sud nessuna differenza.
Si trovò forse per la prima volta uguale tra uguali, persino con chi aveva responsabilità di comando.
“Un mondo nuovo, un sole abbagliante e caldo”, diceva. Scoppiò di felicità.
Gli sembrò un paradiso e non vedeva nemmeno il pericolo e non gli pesava la vita grama e pericolosa.
Voleva bene a tutti, aiutava tutti: sempre disponibile, anche con i civili.
Si comportò da valoroso. Cadde in combattimento in valle.
Lasciò un rimpianto, una profonda tristezza e il rammarico quando scoprimmo che sapevamo tutto di lui, ma non il cognome e da dove veniva.
Fu sepolto nel cimitero di Luserna, contro il muro di cinta, vicino ai caduti partigiani.
Sulla sua lapide c’era solo il nome di battaglia: CATANZA.