Un proverbio locale “oou dë pan e oou dë vin un po ërsëbbre soun vëzin”, che tradotto vuol dire “con pane e con vino si può accogliere il vicino”, la dice lunga sul senso di ospitalità, sul calore umano e sulla familiarità dell’offerta presenti nel mondo montanaro, senz’altro povero, ma generoso.
Accanto a questa caratteristica, compaiono poi l’abilità di rendersi alleata la natura, di cui si seguono sempre i ritmi stagionali, nell’alimentazione come nel lavoro, e la fantasia di saper riproporre i pochi alimenti disponibili in tante varianti.
E’ difficile, forse, da capire in un’epoca di fast food, cibi precotti, surgelati, congelati ed affini, plastica, sottovuoto, fretta, ritmi serrati, tempo incalzante.
Sulla scorta di Teofilo Pons, si può scoprire l’affascinante universo alimentare del montanaro di un tempo, costituito da cibi genuini e naturali, combinati in un curioso “menu-tipo”.
Di mattina (lou dînâ), si potevano mangiare polenta e latte freddo, oppure poltiglia di frumento o granoturco condita con burro e latte... altro che biscotti e merendine del Mulino Bianco!
A mezzogiorno (la marëndo), il piatto forte erano le patate (triffla): non c’era che l’imbarazzo della scelta: lesse (salâ), condite (coundia), in umido (a carteiroun), fritte con burro (a la pèelo), in purea con burro fuso e latte (eimichâ), cotte con la buccia e poi soffritte (loubba), bollite con la buccia (brouâ).
Naturalmente come companatico si usavano formaggio fresco (toummo frécho) o stagionato (toummo fatto), genuini prodotti casalinghi, o vari prodotti suini: sanguinacci (boudin o moustardèllo), salsiccia (soutisso), salame (salam), ventresca (vëntrësco), cotenna (coueino), carne (carn)..., ricavabili dal maialino che ogni famiglia allevava ed ingrassava con cura per “lou festin” di dicembre, quando ci si riuniva per uccidere il maiale, di cui si usava proprio tutto.
Sulla tavola, al posto delle onnipresenti patate, potevano venire presentate insalate fresche di stagione e uova sode, frittate verdi di erbette con salsiccia o cipolle, oppure polenta “acoumoudâ” con burro fuso e formaggio grattugiato, cotta nel “brounso” o nell’“oulo” ed affettata con “fiël ërtors”, filo ritorto.
A cena (la sino), per stare leggeri, si mangiavano polenta con latte o minestra di fagioli o lenticchie o verdure, o poltiglia di farina con poco riso o pasta, di solito riservati alle grandi occasioni, e latte, ovviamente, il solito formaggio.
Solito? Forse! Ma c’erano la “jouncâ”, o ricotta, che diventava prelibata ghiottoneria se stagionata (sairas d’l fen) in foglie di festuca, graminacea presente in Valle e, se spremuta, dava il sëras che, impastato a sale pepe e cannella e poi fatto fermentare diventava il forte e piccante “brus” o insaporito con il “bouno”, mistura segreta di spezie ed erbe aromatiche e germogli, diveniva veramente “speciale”!
Se il lavoro nei campi era intenso, bisognava rigenerare le energie con due spuntini intermedi: lou deijeun e la marëndoun.
Raramente sulla tavola del montanaro compariva la frutta, se non le castagne d’inverno oppure i prodotti, per lo più mele, ottenuti barattando gerle di patate oppure raccolti nei boschi, mirtilli, fragole, more, lamponi, che uniti a vino, fornivano una specie di macedonia, la saladdo.
Il sapore del cibo era esaltato da un leggero vinello di 6/8 gradi, preparato nella propria cantina; purtroppo di questo tipo di vino è sparita ogni traccia dopo il 1930, anno catastrofico per l’economia locale, a causa della filossera che ha completamente distrutto tutti i vigneti di valle.
Questo il passato. E oggi?
Ci fanno da guida , facendo nascere l’acquolina in bocca, i dettami di un gourmet moderno, come lo chef del ristorante Flipot di Torre Pellice, che ha saputo riproporre vivande che conservano il buon sapore dei vecchi tempi andati e presentano tocchi di moderna raffinatezza oppure le indicazioni dei vari agriturismi di valle, che hanno fatto rivivere nei loro locali la convivialità e le portate antiche.
Nelle varie stagioni la fantasia “lievita”: sono soddisfatti i vegetariani, i carnivori ... gli onnivori, poi...
Si passa dalle frittate primaverili realizzate con primule e violette o germogli di giovane ortica o fiori d’acacia, per arrivare alle insalate di crescione o di girasoli novelli, che bene legano con trote e salmerini, presenti in abbondanza negli impianti ittici della zona; si può fare una scorreria tra “mourson”, insieme di varie parti di maiale conservate sotto sale, secondo l’antica tradizione, tra “sairas” e tome, magari stagionati, tra crostate e budini estivi di frutta, a base di cornioli, more, lamponi e mirtilli, per ‘leccarsi i baffi’ grazie a tortini di verdure, sancraut o insalate di funghi, meglio se ovoli reali, o selvaggina arrostita o al “civet”, adatti alle nebbiose giornate autunnali.
Ci si può riscaldare in inverno gli occhi ed il palato con zuppe di castagne e latte, di patate e zucca, di fagioli e lenticchie, magari concludendo con una dolce marronata.
Durante due festività, l’una marcatamente valdese (Festa dell’Emancipazione al 17 febbraio) e l’altra marcatamente ‘universale’ (Natale), si ‘rispolverano’ alcune delle antiche usanze alimentari: nel primo caso proponendo la ‘supa barbetta’, un tempo detta ‘souppo’, cotta su braci del camino e senza mescolare, nella quale confluiscono cavolo, pane, toma, burro, spezie e brodo di gallina oppure offrendo la “prustinenga” a base di frattaglie di capretto stufate in vino rosso speziato; nel secondo caso, esibendo i dolci di buon augurio come la torta di crema valdese, cotta rigorosamente nel forno a legna o la torta di noci.
Dopo questo excursus alimentare tra passato e presente, si avverte ancora di più la voglia di cibi sani ed il desiderio di riscoprire il piacere di stare a tavola insieme, come momento di condivisione di aromi, di sapori, di conversazioni e sentimenti: anche questo è un modo per non perdere le proprie radici.